Un luogo per contenere altri luoghi. Accade con la mostra della fotografa tedesca
Candida Höfer, venti monumentali scatti per catturare gli interni più evocativi della città di Firenze e riproporli al pubblico dall’11 dicembre 2009 al 24 gennaio 2010 a Palazzo Medici Riccardi. Realizzata dalla Fondazione Palazzo Strozzi in collaborazione con la Provincia di Firenze, la mostra prende la forma di un vocabolario per immagini da sfogliare con gli occhi. Fotografie grandi come pareti (parlano le dimensioni, 200 x 250 cm) che sovrastano il minuto osservare degli uomini, ai quali ora si chiede di prestare attenzione all’insieme, amplificato e reso immutevole nella rigida rappresentazione del tempo. Risponde forse ad un naturale quanto umano istinto di conservazione l’operare dell’artista che, dietro l’apparente distacco, rivela una non trascurabile affezione per questi posti.
Il lavoro di ricerca e di selezione è durato circa cinque mesi, nei quali la Hofer è tornata a più riprese nel capoluogo toscano cercando non solo evidentemente una soluzione di continuità nel proprio sguardo ma anche tra passato e presente. Raccontare i luoghi in modo frontale, stigmatizzarli sospendendoli nel tempo, significa penetrarli nel profondo. Bisogna avvertirli, sentirli, viverli e immaginare al contempo che qualcuno lo faccia quotidianamente.
La totale assenza di presenze umane nelle istantanee è evidentemente un suggerimento a trasformare l’anonimato e la funzionalità dello spazio in un ambito proprio, dove ciascun visitatore può fermarsi, collocarsi e impaginare un momento di intimità. Unica eccezione la posterizzazione di una veduta sulla sala di lettura della Biblioteca Marucelliana (XVI). Ai tavoli di studio varie persone catturate con un tempo lento di scatto, per rendere probabilmente più dinamico l’ambiente proposto e smentire la rigidità dell’archiviazione, della classificazione. Questa infilata di tomi, libri, antichissime raccolte, paralizza apparentemente il bene culturale, lo congela condizionando il suo trasferimento o il suo prestito ad un semplice atto burocratico.
E’ possibile che Candida Hofer non abbia visto nel rigore una sorta di ostacolo, nell’austerità e nel prestigio del luogo un motivo di selezione sociale da rimuovere, da esorcizzare in qualche modo. Vero è che gli spazi scelti – si va dalla Sala Niobe, la Tribuna o il corridoio di ponente della Galleria degli Uffizi alla platea e i palchi del Teatro della Pergola, alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti – , al pari di altri non entrati a far parte dell’allestimento, hanno una loro fisicità, esprimono insomma un’autentica individualità che non può essere confinata, ma al contrario liberata.
Osserva con il consueto acume la Soprintendente per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale di Firenze, Cristina Acidini: “…mi sono giunti racconti sul punto di trasformarsi in leggende. La Hofer toglie gli idranti, sposta i cartelli – specie l’indicazione internazionale della via di fuga, con l’omino bianco stilizzato che scappa da un banale recintino in campo verde – scioglie i cordoni dissuasori dai ritti… Queste sue amabili ma perentorie richieste (tutte soddisfatte) mi hanno fatto riflettere, una volta di più, su come la segnaletica di legge e d’utilità sia e resti incompatibile con le materie, le forme, i colori degli ambienti e dei manufatti storici”.
Se da un lato dunque l’autrice si serve del linguaggio documentaristico per rispondere ai criteri dell’oggettivismo tedesco con cui si è formata, esprimendo il reale attraverso la realtà stessa, senza alterazioni e con inquadrature frontali, dall’altro cerca evidentemente un’anima e una prospettiva, qualcosa che riempia e popoli i bei mondi di perfezione assoluta che desidera restituire agli occhi del pubblico.
Ogni luogo finisce per essere diverso dall’altro non solo per le caratteristiche architettoniche, quanto per la persuasione esercitata dall’immobilità a fare di più, a spostare le cose secondo fantasia e il nostro piacimento. L’immagine raggiungerà la sua pienezza quando al luogo il visitatore aggiungerà la narrazione, come una voce fuori campo. Avrebbero cercato nella stessa direzione i maestri della Hofer, Berndt e Hilla Becher, artisti concettuali promotori della Scuola di Dusseldorf che tanto ha influito sulla fotografia documentaria.
Tuttavia, mentre nelle opere dei Becher l’oggetto prediletto e sistemico è l’architettura funzionalista, davanti all’obiettivo di Candida Hofer si materializza il vivere politico, culturale, un sistema sociale. Non semplici cattedrali nel deserto ma luoghi magnifici per far uscire allo scoperto usi e costumi, epoche passate, tempi presenti. Per questi motivi James Bradburne, Direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi, l’ha voluta a tutti costi sul suolo fiorentino, considerato anche l’obiettivo principale di contribuire al “nuovo Rinascimento” della città trasformando Palazzo Strozzi in un catalizzatore per eventi culturali di livello internazionale.
Dopo aver parlato con il gallerista Ben Brown, che rappresenta Candida Höfer a Londra, Bradburne ha giustamente pensato di aver trovato l’evento internazionale di risalto in una mostra della fotografa tedesca e dopo tre anni – era il 2006 – ecco che Firenze è pronta ad accoglierla aprendole le porte dei suoi magnifici interni d’autore. “
Una rassegna elegante – conclude Cristina Acidini -, rigorosa, che vede e quindi fissa una perfezione che per abitudine o per rassegnazione quasi non eravamo più capaci di scorgere”.
BIOGRAFIACandida Höfer (n. 1944), figlia del giornalista tedesco Werner Höfer, vive e lavora a Colonia. Una volta completato l’apprendistato al Schmölz-Huth Studio, nel 1976 è diventata una pupilla di Bernd e Hilla Becher, ed è possibile riconoscere immediatamente nella sua estetica l’influenza di una scuola di pensiero e fotografia che si concentra sugli spazi fisici, con l’intenzione di catturare le sottili variazioni che si verificano al loro interno. Insieme agli altri grandi fotografi contemporanei Andreas Gursky, Thomas Struth, Axel Hütte e Thomas Ruff, Candida Höfer appartiene alla Scuola di Düsseldorf, un movimento conosciuto per la sua analisi neutra e metodica degli spazi che noi, in qualità di esseri umani contemporanei, abitiamo.
L’opera della Höfer ha ricevuto riconoscimenti internazionali ed è stata esposta, tra l’altro, ai Kunsthalle di Basilea e Berna, al Musée du Louvre di Parigi e al Irish Museum of Modern Art di Dublino; numerosi suoi lavori si trovano inoltre in grandi musei e collezioni private.
Ha rappresentato la Germania alla Biennale di Venezia del 2003 e partecipato a documenta 11 (2002).
Testo e immagini tratti dal comunicato stampa ufficiale.
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