Come un fermo immagine sullo scorrimento di una pellicola cinematografica, l’otturatore della macchina fotografica di
Carlo Bevilacqua si chiude davanti al panorama di Nicosia giusto nell’attimo che precede il temporale. La fotografia sembra fermare il corso degli eventi, conduce lo sguardo al di sopra della storia, suggerisce che sotto quel cielo carico di pioggia, nella valle protetta dalle montagne che si perdono all’orizzonte, nelle stradine che scorrono tra i palazzi illuminati di luce calda, accade qualcosa di inaudito, qualcosa d’inspiegabile, qualcosa che dopo vent’anni dalla caduta del muro di Berlino vale la pena ricordare.
Esiste un confine che dal 1963 divide Cipro, un muro che s’impiantò sull’isola per porre fine alle sanguinarie occupazioni e violente intolleranze di greci e turchi. Una barriera che sopravvive ancora oggi, che non genera più né scontri, né sofferenze, ma che ieraticamente sancisce l’immutabile differenza tra stati ricchi e stati poveri, tra ingiustizie tollerabili e guerre da debellare, tra muri da abbattere e muri da dimenticare.
Il panorama di Nicosia apre un viaggio fotografico lungo il confine interno della città, svelandone un volto spettrale, di villaggi abbandonati, palazzi rasi al suolo, torrette di avvistamento, fili spinati e sguardi straniati da un paesaggio irreale. Soldati di guardia ai confini, Pick up militari, chek point e cartelli di divieti si svelano ai nostri occhi come simbolici strumenti utili solo a mantenere in vita l’ultimo muro, il simbolo di tutti i muri che nel mondo continuano selvaggiamente a dividere popoli e culture.
Una fotografia documenta che a Lidra Street la riproduzione di una vecchia immagine fa rivivere il dolore di una figlia che, con un gesto rassegnato, mostra il volto antico di un fierissimo padre morto in battaglia. Un’immagine che ci riporta al presente, ci conduce a guardare oltre una finestra e a ritornare per le strade di Cipro, dove i soldati continuano a sorvegliare il muro, dove il passato sembra riproporsi continuamente, dove si tramandano simboliche tracce di devastanti conflitti e strazianti abbandoni.
Denis Curti
Direttore dell'Agenzia Fotografica Contrasto e del Dipartimento di Fotografia di NABA
Nicosia è una città con le mura, ed è una città con il muro. Le mura sono quelle veneziane del XVI secolo, il muro è quello che da quarant’anni attraversa diametralmente il centro storico. Il 9 novembre ricorre il ventesimo anniversario della caduta del ben più celebre muro costruito a Berlino, ma in Europa esiste ancora una barriera che divide una città e uno stato. Cipro e soprattutto la sua capitale sono il territorio europeo dove lo spettacolo dell'ultimo muro rimasto in piedi va in scena tutti i giorni. È la “Linea del cessate il fuoco”, una doppia cortina con in mezzo una fascia di rispetto controllata dall’ONU, che divide la parte Greca da quella Turca, Lefkosa da Lefkosia. Non c’è tensione e neppure pericolo, alcuni “Check Point”, come quelli di Ledra Street o di Ledra Palace, si possono attraversare da Nord a Sud e viceversa senza grandi problemi. Le strade sul confine sono spesso interrotte, rese cieche nella parte greca da muri con i colori bianco e azzurro della bandiera ellenica e in quella turca con l’effige della mezzaluna. Qui, a ridosso della frattura, da ambedue le parti sono proliferate falegnamerie, officine meccaniche, botteghe artigiane, immerse in un’atmosfera di devastazione e desolazione da dopoguerra balcanico: carcasse di auto, vecchi elettrodomestici, barricate di bidoni di ferro, le case in gran parte disabitate e in rovina, alcune con sacchetti di sabbia ai balconi, per difendere gente che non c’è da proiettili che da molti anni non arrivano più. Nelle strade del centro la stessa vivacità, vicino alla barriera la stessa depressione da semi-abbandono. Oltre il “muro”, la terra di nessuno, la zona fantasma, dove i vecchi palazzi cadono a pezzi e gli alberi crescono rigogliosi in quelli che una volta erano saloni da pranzo e camere da letto.
La guerra più recente ha imposto a Nicosia l’ennesima mutazione, dopo gli storici passaggi di mano fra templari, Lusignano, veneziani, ottomani, inglesi: fino agli anni 60 c'era un solo centro storico; adesso, dopo il tentativo di colpo di stato dei colonnelli greci, e l'occupazione del '74 da parte dell'esercito turco, ce ne sono due, in stand by. Un limbo in cui i visitatori si insinuano in cerca di emozioni, dove il confine non è in realtà tra greco e turco, tra Europa ed Extraeuropa, ma tra abbandono e rinascita, tra luoghi perduti e luoghi da ritrovare. È questo forse il più importante muro da abbattere e c’è chi ha lavorato per questo: il Nicosia Master Plan è un progetto avviato dalle Nazioni Unite fin dal 1979 con l’obbiettivo di “coinvolgere entrambe le municipalità in un lavoro comune per il miglioramento della città”. Oggi il progetto è in gran parte realizzato: tutti i più importanti monumenti sono freschi di restauro, a nord e a sud. Fra questi, la cattedrale di Santa Sofia trasformata in moschea dal sultano Seliym 460 anni fa, oppure l’ex monastero di Santa Maria degli Agostiniani, ora moschea Omeriye, sono templi dove sarebbe naturale pregare un dio o pregare l’altro, o pregarli insieme, in pace. Quando il mondo sarà pronto? Ecco cosa suggeriscono gli antichi campanili rivestiti da minareti. Così come le barricate e le garitte delle Linea Verde, nonostante il loro aspetto minaccioso, più che l’alto là sembrano lanciare un monito della memoria per non tornare indietro. Né a Cipro né altrove.
Saverio Paffumi
Giornalista e scrittore, liberamente adattato da un articolo per Meridiani
Confesso la mia flagrante ignoranza. Certo sapevo che Cipro è una grossa isola da qualche parte nel Mediterraneo orientale; sapevo anche che Greci e Turchi da un po’ di tempo si guardano in cagnesco, che guai se in Grecia chiami kebab il ghiros – non già perché ne rivendichino la paternità, ma perché non piace loro gli si ricordi che è turco - tanto per menzionare una delle piccole dispute che infiammano i due popoli – la cui piccolezza dà invero da riflettere circa il costrutto di sciocchezza da cui simili dispute debbano in fin dei conti trarre origine – non è dalle genti infatti, ma dai tasti suonati dai poteri sugli umori delle genti. Certo non posso dire di esserne convinto, e quanto a tale convinzione molti sarebbero gli storici pronti a ridermi dietro, ma a mio modo di vedere, le genti, salvo nelle chiacchiere del bar o delle piazze o delle agorà o oggi nei campi di calcio, delle guerre farebbero una scaramuccia presto finita a pacche sulle spalle e, se qualche morto ci dovesse scappare, forse le due parti ne piangerebbero insieme rammaricandosi per la propria asineria. Le guerre le hanno sempre combattute i poteri, sempre e soltanto. Ma la gente, ah, si sa com’è fatta la gente. È fatta così male da lasciarsi ogni volta tradurre in guerra.
Dunque di Cipro non sapevo quasi niente. A farmene sapere sono le immagini di Carlo Bevilacqua, nonché le cose da lui dettemi. E immediatamente la storia di Cipro va inserirsi a pieno diritto, pur nelle complesse pieghe che la cosiddetta storia sa intessere intorno agli eventi, va a inserirsi nel novero di quelle che, abbastanza lontani come siamo noi, ci scandalizza per il grado di stupidità di cui ogni volta l’essere umano sembra intenzionato a dare prova. Infatti a Cipro c’è un muro. The last wall che dà il titolo alla raccolta di foto. Un muro che si picca di dividere le due comunità una dall’altra (non sto qui a descrivere la vicenda delle due comunità). Uno ai muri ci si abitua – ed è questo, al di là dei drammi e delle tragedie, un aspetto che Bevilacqua riesce a ritrarre così bene, l’abitudine. Come? Con la “desolazione” che il fotografo indica, nel senso di mette all’indice, pur raccogliendola in qualche modo nelle categorie dell’estetica e del bello – perché belle sono le foto, non la desolazione, e le foto sono belle appunto perché la desolazione resta tale, senza alcun compiacimento e senza alcuna retorica.
Eppure, di là dall’abitudine, viene davvero da domandarsi: “ma a chi diavolo può venire in mente di erigere un muro che divide un quartiere dall’altro, un nipote dallo zio, una fetta di pane dalla pagnotta che l’ha generata, la mollica dalla crosta e la pasta dal grano?
Un muro, ce l’avevamo in centro Europa. E di cosa era figlio quel muro? della divisione in due del mondo. E da dove arrivava quella divisione in due? Non si può non dire, al di là delle difficoltà implicite nella comprensione dei passaggi della storia, se non da un atroce, colossale cumulo di imbecillità, a cominciare dai principi della seconda guerra mondiale, per passare alla straordinaria partecipazione dell’Italia a quel disgustoso conflitto, per tornare al principio con la fifa diplomatica delle due nazioni che si spacciavano per grandi – Francia a Inghilterra – e con l’isolata intelligenza politica di Cecoslovacchia e Polonia, tradite come spesso l’intelligenza è tradita in simili circostanze. Certo essere “pacifisti” è un’ingenuità, ma lo è almeno in tanto e in quanto il non esserlo è una stoltezza. Non credo però che non esistano strade alternative, fra l’ingenuità e la stoltezza. E chissà che Cipro, ormai così isolata nel suo ultimo muro, non sappia, un bel dì, portarcene un mai abbastanza precoce esempio.
Fabio Mario Santopietro
Giornalista e scrittore
Testo e immagini tratti dal comunicato stampa ufficiale.
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